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Fabbricato abusivo in comunione ordinaria o ereditaria: condizioni e limiti della divisione giudiziale

24/05/2021

Secondo un orientamento assolutamente prevalente della giurisprudenza civile – cristallizzata nella nota decisione delle Sezioni Unite della Cassazione n. 25021/2019 – la legittimità edilizia del fabbricato in comunione costituisce presupposto giuridico sia della divisione convenzionale, sia della divisione in giudizio. Ne consegue che il giudice non può disporre lo scioglimento di una comunione – ordinaria o ereditaria che sia – avente ad oggetto dei fabbricati, senza osservare le prescrizioni dettate dall’art. 46 del d.P.R. n. 380//2001 (c.d. T.U. dell’edilizia), e dall’art. 40, comma 2, della legge sul condono n. 47/1985, rispettivamente applicabili a seconda che l’edificio sia stato costruito successivamente o anteriormente alla entrata in vigore della predetta legge n. 47/1985. Di qui, essendo la regolarità edilizia del fabbricato posta a presidio dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio, la carenza della documentazione attestante tale regolarità risulta rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio e rende improcedibile la domanda di divisione. È quanto ribadito dalla recente sentenza Tribunale Genova, sez. III, 21.01.2021, n. 121.

Questi i motivi della decisione: «Con atto di citazione ritualmente notificato L., G. e C. S., comproprietari di un immobile sito nel Comune di Rapallo, località San Michele di Pagana, via F., convenivano in giudizio P. M. C., C. C. e M. C., nonché il sig. G.C., assumendo che le parti sono tutte comproprietarie del compendio immobiliare costituito da una palazzina di tre piani, in ognuno dei quali è stato realizzato un appartamento di civile abitazione, con lastrico solare soprastante ed ampio giardino; che ognuna delle parti gode in via esclusiva di un appartamento restando in uso comune gli altri beni citati nonché il locale posto a livello sottostrada costituito in parte da piccolo appartamento non ultimato ed in parte da cantine e da un locale magazzino; che le parti sono per stirpi comproprietarie per quote di uguale valore di detti beni.

Pertanto chiedevano la divisione del compendio immobiliare con la formazione di tre lotti omogenei.

Si costituivano i convenuti con comparse separate sostanzialmente aderendo alla domanda di divisione chiedendo tuttavia che nella formazione dei lotti si tenesse in considerazione l’uso attuale di ciascun appartamento in capo alle parti.

La causa veniva istruita mediante CTU.

All’esito, in ossequio ai principi esposti della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 7/10/2019 n. 25021, il Giudice con ordinanza di rimessione della causa sul ruolo in data 21/11/2019 invitava le parti a produrre le dichiarazioni attestanti la regolarità edilizia dei beni nonché la conformità catastale a pena di improcedibilità della domanda.

Nel lungo tempo trascorso, nonostante i diversi rinvii concessi alle parti per adempiere anche tenuto conto dell’emergenza sanitaria, le parti non hanno provveduto all’adempimento richiesto.

È pacifica e non contestata la sussistenza della comunione indivisa relativamente ai beni descritti in atti derivanti dalla successione ereditaria dell’antenato G.C., né vi sono contestazioni in merito alle quote indivise spettanti alle parti.

La domanda di divisione relativamente a tali beni tuttavia deve essere dichiarata improcedibile.

La Corte di Cassazione a SSUU ha statuito che nelle cause di scioglimento della comunione anche con riferimento alla divisione giudiziale dell’eredità va applicato il medesimo regime che vale per la divisione convenzionale. A tal riguardo la Corte ha ricordato che “la disposizione di cui all’art. 17, comma 1, della legge n. 47 del 1985 (ora art. 46, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) si applica non solo alle “divisioni volontarie”, ossia a quelle contrattuali, ma anche alle divisioni giudiziali, risultando, in caso contrario, oltremodo agevole per i condividenti, mediante il ricorso al giudice, l’elusione della norma imperativa in questione (Cass., Sez. 2, n. 15133 del 28/11/2001; Cass., Sez. 2, n. 630 del 17/01/2003)”. Tale principio è conforme alla giurisprudenza di legittimità in tema di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di edifici o di loro parti laddove la Corte “ha statuito che non può essere emanata sentenza di trasferimento coattivo, ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., in assenza di dichiarazione - contenuta nel preliminare o prodotta successivamente in giudizio - sugli estremi della concessione edilizia, che costituisce requisito richiesto a pena di nullità dall’art. 17 della legge n. 47 del 1985 ed integra una condizione dell’azione ex art. 2932 cod. civ., non potendo tale pronuncia realizzare un effetto maggiore e diverso da quello possibile alle parti nei limiti della loro autonomia negoziale (Cass., Sez. 6 - 2, n. 8489 del 29/04/2016 ; analogamente, Cass., Sez. 6 - 2, n. 1505 del 22/01/2018)”.

La Corte, quindi, ha ribadito “come l’ordinamento giuridico non possa consentire che le parti, attraverso il ricorso al giudice, conseguano un effetto giuridico ad esse precluso per via negoziale, così aggirando il complesso sistema di sanzioni posto a tutela dell’ordinato assetto del territorio; né il giudice potrebbe - contraddittoriamente - da un lato dichiarare la nullità delle divisioni negoziali poste in essere in violazione degli artt. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40 della legge n. 47 del 1985 e, dall’altro, disporre la divisione giudiziale dei fabbricati abusivi. Invero, la regolarità edilizia del fabbricato in comunione, come costituisce presupposto giuridico della divisione convenzionale, parimenti costituisce presupposto giuridico della divisione giudiziale; più precisamente, costituisce condizione dell’azione ex art. 713 cod. civ. sotto il profilo della “possibilità giuridica” (in questo senso, in tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di un immobile, Cass., Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009, secondo cui la sussistenza della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, di cui all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, rilasciata dal proprietario o da altro avente titolo, attestante l’inizio dell’opera in data anteriore al 2 settembre 1967, non costituisce un presupposto della domanda, bensì una condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite; da ultimo, Cass., Sez. 2, n. 6684 del 07/03/2019). Non può pertanto il giudice disporre lo scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria) avente ad oggetto fabbricati, senza osservare le prescrizioni dettate dall’art. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, rispettivamente applicabili a seconda che l’edificio sia stato costruito successivamente o anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 47 del 1985. Essendo la regolarità edilizia del fabbricato posta a presidio dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio, la carenza della documentazione attestante tale regolarità è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (Cass., Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009, cit.); parimenti, è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, il mancato esame di tale documentazione da parte del giudice”.

Sulla base di tali argomentazioni la Corte enunciava il seguente principio di diritto: “Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 cod. civ., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

Alla luce degli atti e delle risultanze in sede di CTU non risulta la attestazione della regolarità edilizia degli immobili oggetto di causa né la conformità catastale; le parti non hanno prodotto le dichiarazioni richieste dal Giudice.

Peraltro, la dichiarazione resa davanti a pubblico ufficiale è atto formale, con il quale la parte assume la responsabilità della veridicità del contenuto che non ammette equipollenti.

Tale conclusione rende superflua ogni valutazione in merito alla proposta conciliativa formulata dal CTU sulla cui efficacia il Giudice si è già espresso, negandola, con ordinanza in data 12/4/2018 la cui motivazione si richiama integralmente.

Atteso che la citata sentenza della Corte di Cassazione è sopravvenuta in pendenza di causa e che l’onere della dichiarazione incombe su ciascuna parte e che nessuna ha ottemperato all’ordine del Giudice pare equo compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio.

Ugualmente le spese di CTU vanno ripartite tra le parti in ragione di un terzo ciascuna.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, azione ed eccezione respinte, così decide:

dichiara improcedibile la domanda di divisione dei beni;

dichiara compensate le spese di giudizio tra le parti;

pone a carico delle parti in via definitiva in ragione di un terzo ciascuna le spese di CTU liquidate in corso di causa.

ordina la cancellazione della trascrizione della domanda di divisione».

Di tenore parzialmente diverso è invece l’altrettanto recente sentenza Tribunale Napoli, sez. IV, 09.02.2021, n. 1241. Questa seconda pronuncia ha valorizzato un altro arresto delle Sezioni Unite della Suprema Corte, ossia la decisione n. 8230/2019, sulla c.d. “nullità testuale” che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali ed è volta a sanzionare la mancata inclusione, in detti atti, degli estremi del titolo abilitativo che ha assentito l’immobile.

Questa la parte motiva della sentenza napoletana: «… La domanda è volta allo scioglimento della comunione ordinaria ex art. nn cc, artt. 718, 727, 728 cc richiamati dall’art. 1116 cc, del compendio immobiliare sito in (...) via (...) censito in Catasto Fabbricati al Foglio (...), P.lla (...), subalterni da (...) a (...) realizzato dai germani (...) sul terreno acquistato da (...) il (...), in regime di comunione legale dei beni con i rispettivi coniugi.

Prima di entrare nel merito, va dichiarata la ammissibilità della domanda di divisione pur in presenza di alcune difformità urbanistiche di cui si tratterà di seguito, alla luce dei principi espressi in tema, da ultimo, dalla S.C.: “la nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendosi intendere, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve essere riferibile, proprio, a quell’immobile. In presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato” (sent. Cass. S.U. n. 8230/2019); “In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita, ai sensi dell’articolo 40 della legge 47/1985, può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex articolo 2932 del codice civile a condizione che il vizio di regolarità urbanistica non oltrepassi la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione, dovendosi distinguere, anche quando sia stata presentata istanza di condono edilizio con versamento della somma prevista per l’oblazione e la pratica non sia stata ancora definita, tra ipotesi di abuso primario, relativo a beni immobili edificati o resi abitabili in assenza di concessione, e abuso secondario, caratterizzato dalla circostanza che solo una parte di unità immobiliare già esistente abbia subito modifica o mutamento di destinazione d’uso” (ord Cass n. 26558/2020); ne deriva che la domanda di divisione è ampiamente ammissibile»

Il Tribunale di Napoli è, dunque, giunto alla conclusione che deve ritenersi ammissibile la domanda in giudizio di divisione anche per immobili che presentino lievi difformità sotto il profilo urbanistico-edilizio.

Avv. Domenico Chinello